domenica 31 agosto 2014

Mogherini ce l'ha fatta (facciamocela pure noi)

Federica Mogherini, 41 anni, ministro degli esteri della Repubblica Italiana, è diventata dopo un lungo braccio di ferro Lady Pesc, alto rappresentante agli esteri dell'Unione Europea.
Mi sono naturalmente ricordata di quanto poco vengano valutati, nel nostro paesello, sia i giovani che le donne, di quanto vengano tenuti da parte anche da quella parte politica che per natura e vocazione dovrebbe spingerli avanti, per i maneggi dei soliti furbacchioni assetati di quel potere da quattro soldi che certe cariche comportano. Basti pensare alle recenti elezioni amministrative.
Bene. Sono contenta per la Mogherini, penso che faccia bene a tutti, alle donne e ai giovani. Penso che la sua scelta darà coraggio alle ragazze di Crescentino che studiano e lavorano, e vorrebbero sporcarsi le mani con la politica ma il territorio è quello che è, come la mia storia insegna. Dai ragazze, datevi da fare. Il futuro è vostro. 


martedì 26 agosto 2014

Quelli che benpensano

Sono rimasta un po' basita dalle reazioni alle novità che Mauro Novo va introducendo nel suo blog, con le interviste ai personaggi del paese.
I commenti sono negativi, ironici, vogliono mettere in cattiva luce Mauro e il suo collaboratore (che non conosco, sia chiaro) e alcuni sembra che passino la vita a costruire novità online, vista la tigna che mettono nelle proprie parole (e temo che non sia così).
Questa è la malattia del nostro paese. Non essere capaci di apprezzare chi si dà da fare senza alcun interesse se non la passione, essere invece bravi a tagliare le gambe a chiunque (tranne a quelli che ti fanno paura, e anche questo la dice lunga), così tutti (in teoria, per fortuna) preferiranno stare fermi e sarà raggiunto lo scopo che non succeda mai niente: un ideale purtroppo largamente condiviso. E' una cultura radicata, non so se si guarisce. Purtroppissimo. 

sabato 16 agosto 2014

L'elogio dell'ipocrisia e le pericolose pratiche zen

Questo è soltanto l'inizio di un lungo articolo di Alessandro Piperno apparso la prima domenica d'agosto su "La lettura" del Corriere della Sera. Il resto del dottissimo percorso si sviluppa secondo parametri letterari, ma il succo che leggerete ha provocato vivissime discussioni in rete, e diviso i pareri. 
Oltre la sincerità e l'ipocrisia, c'è una terza opzione, il silenzio, che ho imparato in questi anni volendo portare a termine una situazione a dir poco difficile. Certo, una cosa è la vita e una cosa la "politica" (con mille virgolette). Da quest'ultimo punto di vista non lo consiglio tanto perché fa male, il silenzio: non allo spirito, se è temprato, però poi ho capito che è il fisico a ribellarsi, e ti vengono fuori cose tremende. A me (per ora) è ancora andata abbastanza bene; sono solo stata 15 giorni senza poter camminare, fino a pochi giorni fa; ma dallo stesso giorno in cui io mi sono bloccata all'improvviso, mio cugino primo Gianni - che ha cominciato e finito in Liguria un mandato di sindaco come me, e aveva (amministrazione di destra) una situazione assai turbolenta in Giunta, e ha praticato il mio stesso esercizio zen - da quello stesso giorno è all'ospedale con emorragia cerebrale, e per fortuna si sta riprendendo e non subirà danni.  Lui non si è nemmeno fatto saltare il tappo però, mai, fino alla fine (io, almeno, sì). 
Dico fin d'ora a chi fosse stufo di queste considerazioni, di non praticare il blog "Amare Crescentino".
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di Alessandro Piperno
Tanti anni fa, nel dedalo di viuzze che ancora oggi compongono il vecchio ghetto di Roma, si aggirava una signora un po’ stramba a cui nessuno rivolgeva la parola. Si diceva fosse stata una ragazza spigliata, sbarazzina, straordinariamente procace. Qualcosa doveva essere andato storto se la sua occupazione odierna consisteva nel battere le vie del ghetto con un cane immaginario al guinzaglio. Lo vezzeggiava, lo rimbrottava continuamente, suscitando la costernazione dei passanti. Quando la vidi per la prima volta stavo accompagnando mio nonno da un cliente. Ero abbastanza piccolo da trovare sbalorditiva la vista di una signora che parla con un cane inesistente. Immaginate allora il mio stupore quando mio nonno si chinò sull’invisibile bestiolina chiedendo con disinvoltura: «Come si chiama questo adorabile cagnetto?». «Si chiama Zeta».
Ho un ricordo abbastanza preciso della mia indignazione. Come poteva mio nonno farsi beffe della follia di un’alienata? Non aveva alcun rispetto per lei? Cosa lo aveva indotto a un così impudente gesto di scherno? Pochi giorni dopo, mio nonno ed io ci imbattemmo ancora nella signora. Stavolta fu lei ad avvicinarsi e a sorriderci. «Mi scusi, dottor Piperno, Zeta voleva farle le feste!». Fu allora che capii che la sollecitudine con cui mio nonno aveva assecondato la pazzia della signora non aveva l’intento derisorio che le avevo attribuito. Era un semplice disinteressato gesto di cortesia.
Passa qualche anno. Sono vicino alla laurea. La mia arroganza trae linfa dal carisma sessuale conferitomi dalla mia nuova ragazza. È molto carina, ci adoriamo. Una sera siamo seduti al tavolo di una pizzeria in Prati quando entra una mia compagna di classe che ai tempi del liceo mi piaceva parecchio. Mi alzo e corro a salutarla. Quando mi risiedo, la mia ragazza, piuttosto immusonita, mi dice: «Non pensavo ti piacessero ragazze del genere». La gelosia è la sua debolezza. Ecco perché dovrei rassicurarla. Dirle che non mi piace alcun genere di ragazza, perché a me piace solo lei. E invece mi metto lì a concionare. Non solo mi piacciono quel genere di ragazze lì, ma anche un’altra dozzina di generi che lei non può neppure immaginare. Poi alzo il tiro, snocciolando verità a buon mercato: la monogamia non ha senso, è un’impostura puritana; tutti siamo potenziali adulteri, soprattutto quelli che dicono di non esserlo. La foga oratoria trova requie solo alla comparsa della prima lacrima sulla guancia della mia ragazza. L’ho insultata. L’ho resa inutilmente infelice. L’ho fatta piangere. E tutto in nome di una verità che ciascuno di noi conosce, ma che non è così urgente ricordare al prossimo.
Sono solo due esempi, tratti dalla mia esperienza, che mostrano in modo plastico quanto la sincerità sia sopravvalutata. Detesto le persone schiette. Quelle che ti sbattono in faccia quello che pensano. Che ti dicono che sei ingrassato, che hai scritto un articolo insulso, che mentre parlavi di fronte alla vasta platea erano tutti ipnotizzati dal pezzo di spinacio incastrato tra i canini del conferenziere. Per non dire di quelli che proprio ieri hanno visto la tua ex mano nella mano con un altro tizio («sembravano felici»). Mi fa infuriare la finta coscienza immacolata, la malafede travestita da buonafede. Trovo volgare la retorica del pane al pane. E invece ho un debole per le ragazze che dopo il sesso ti dicono che non è mai stato così bello, per gli oncologi pietosi, gli avvocati ottimisti, i ruffiani di ogni foggia e colore. Adoro gli ipocriti. Un grande scrittore francese del secolo scorso diceva che la sincerità è la bava del cattivo umore. Non sempre naturalmente, ma molto spesso l’esigenza di dire una verità spiacevole cela un’inconfessabile frustrazione, un malanimo dissimulato.

martedì 12 agosto 2014

O Capitano, mio capitano

Cordoglio generale per la morte di un grandissimo attore, forse suicida per depressione, Robin Williams. Il suo must, L'attimo Fuggente.
Tutti abbiamo avuto un professore che ha dato il là alla nostra vita. In quel film, egli lo impersonò magistralmente.
Il professore che mi ha dato il là è stato Carlo Talenti, che insegnava storia e filosofia al liceo classico Palli di Casale Monferrato che ho frequentato. Mi viene in mente, dall'altra parte della barricata, un episodio del 25 aprile di 2 anni fa, quando al teatro Angelini durante la commemorazione della Resistenza salì sul palco un uomo canuto e riccioluto, che cominciò a leggere e declamare con grande abilità. Ne fummo tutti affascinati. Al termine del suo discorso, l'uomo scese e mi si avvicinò, spiegandomi di essere stato mio allievo al Liceo Scientifico di Borgosesia, dove avevo insegnato (a mia volta) storia e filosofia; mi disse anche di essere l'attuale preside del medesimo liceo, con la stessa laurea.  Che colpo. E' uno dei ricordi che mi ripagano in parte di tutte le amarezze che ho ingurgitato negli ultimi cinque anni.
Vabbé, eccovi la poesia di Walt Whitman dopo l'assassinio di Abramo Lincoln, pezzo forte del film "L'attimo fuggente", e RIP Robin Williams.


Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

(traduzione di Antonio Agresti, in "Abramo Lincoln", Formiggini, Genova 1913)

domenica 10 agosto 2014

Nell'Iran moderno ai blogger va decisamente peggio che da noi

IRAN: UCCISE BLOGGER IN CELLA, POLIZIOTTO CONDANNATO A CARCERE E FRUSTATE.

Teheran 
Un poliziotto iraniano è stato condannato a tre anni di carcere, due di esilio all'interno del Paese e a 74 frustate per l'omicidio premeditato di un blogger nel 2012. Lo riferiscono i media iraniani spiegando che Sattar Beheshti, 35 anni, era stato all'arrestato il 12 ottobre di due anni fa per aver criticato il regime di Teheran su Internet e il 3 novembre era stato trovato morto nella sua cella nel carcere di Kahrizak. I gruppi di opposizione denunciarono che l'uomo era stato torturato a morte. La procura di Teheran ha quindi stabilito che la morte di Beheshti è stata ''probabilmente causata da diversi colpi ricevuti in parti sensibili del suo corpo o per una pressione psicologica estrema''. L'omicidio premeditato è tra i reati punibili con la pena capitale in Iran e per questo l'avvocato della famiglia della vittima, Giti Pourfazl, ha definito ''sorprendente'' la condanna a tre anni di carcere per l'agente. (Adnkronos)


venerdì 8 agosto 2014

Fubini, così siamo noi italiani (e cambiare?)


Da "Repubblica" del 7 agosto, un'analisi del giornalista economico Federico Fubini che ci racconta quel che noi italiani fummo, e quel che siamo e saremo, con una lucidità rara.

FORSE il problema non è tanto l’ennesima recessione, ma il fatto che tutto ritorni così simile a se stesso in questo Paese. Nel giugno del ‘44, già pensando al dopoguerra, Luigi Einaudi scrisse al direttore dell’ Economist una supplica agli alleati di non forzare l’Italia a diventare un’economia moderna. Non perché le riforme non fossero necessarie, spiegò, ma per non creare una reazione di rigetto in un’Italia dove il fascismo era morto, ma lo sciovinismo restava vivo e vegeto.
«I NOSTRI rappresentanti verrebbero banditi come traditori e agenti dei poteri finanziari plutocratici stranieri», scrisse Einaudi.

Questa sembra di averla già sentita, più di recente. Altrettanto familiare suona anche la previsione formulata allora dal futuro presidente e i successivi esiti. Einaudi promise agli angloamericani che gli italiani sarebbero stati felici di fare le riforme da sé, se solo fosse stata lasciata loro la sovranità (oggi diremmo: niente troika). Non successe. Lo Stato corporativo cambiò nome o bandiere ma non la sua struttura, che ancora oggi si perpetua. L’Iri sopravvisse e oggi il virus dell’invadenza della politica nelle banche e nelle imprese infuria con oltre diecimila società partecipate dallo Stato: per lo più costose per il cittadino, monopoliste e inefficienti. E la burocrazia dell’Italia democratica rimane più votata al controllo e allo scarico di responsabilità che all’efficienza e al servizio. Così l’Italia ha attraversato il dopoguerra avendo cambiato le istituzioni politiche, ma non quelle dell’economia fascista.

Avanti veloce di settant’anni ed è difficile non accorgersi di cosa sta succedendo. Puntualmente il governo di turno annuncia la ripresa, che poi non arriva. Nell’ultimo decennio il Tesoro ha sempre sbagliato per eccesso le stime di crescita dell’anno in corso. Dall’avvio dell’euro l’Italia è il solo Paese, Grecia inclusa, nel quale il reddito per abitante è calato. Negli ultimi venti anni non c’è stata quasi crescita economica, il risultato peggiore fra le 34 democrazie avanzate dell’Ocse. In questo secolo la produttività – la capacità di generare reddito in un’ora di lavoro – è rimasta ferma mentre è salita in Germania, Francia, Gran Bretegna, Stati Uniti, Spagna, Svezia e una quantità di altri concorrenti. Eurostat stima che l’export di alta tecnologia è il 6% del totale per l’Italia, ma il 16% nella media europea.

Le istituzioni economiche ereditate dal fascismo, sopravvissute con molte metamorfosi, si stanno dimostrando incompatibili con il ventunesimo secolo. Non si può più vivere di protezionismo e autarchia (oggi diremmo: tutela degli insider e «decrescita felice »). Ciò che fa vivere è la capacità di innovare e sostenere imprese pensate per stare su mercati globali, invece la struttura dell’economia italiana ha prodotto l’opposto. Il tempo medio per una causa civile o commerciale è di 2992 giorni (900 in Germania) perché gli avvocati continuano a prendere parcelle basate sulla durata di un caso, mentre i magistrati sono pochi e non vengono valutati sul loro rendimento. Normale poi che in queste condizioni gli investimenti diretti esteri in Italia fra il 2009 e il 2013 siano stati di 80 miliardi, contro i 126 della Francia, 143 della Spagna, 187 della Germania e 261 della Gran Bretagna.

Quanto alle aziende, ormai la loro dimensione media è di appena quattro addetti e solo una su cento ne ha più di 50. Gli imprenditori vengono incoraggiati a restare piccoli, con tanto di retorica sul loro eroismo, quando invece è ormai ovvio che per stare sul mercato hanno bisogno di una taglia più grande. Rafael Domenech del Bbva stima che un’azienda di 250 addetti crea in un’ora di lavoro tre volte più prodotto e più reddito (anche per gli operai) rispetto a un’azienda di soli dieci. Eppure in Italia si incentivano ancora le imprese a restare nane offrendo contratti di lavoro meno blindati solo a chi assume non oltre 15 persone: così il lavoro diventa meno efficace, i prodotti poco competitivi e vendibili solo a prezzi bassi, dunque il fatturato cala, i compensi anche, crolla la domanda interna e non basteranno certo 80 euro a rianimarla.

Quanto alle tasse e il rapporto con la burocrazia, non c’è solo un’imposizione fiscale sulle imprese che arriva al 65,8% del fatturato: il 23% in più della media europea. C’è anche l’incredibile, addirittura offensiva complessità. Confartigianato stima che fra aprile 2008 e marzo 2014 sono state introdotte in Italia 629 nuove leggi tributarie, due alla settimana negli ultimi sei anni. Per ognuna che semplificava, oltre cinque hanno introdotto una nuova complicazione. Gli adempimenti impongono quasi due mesi di lavoro di un mini-imprenditore l’anno: tutto tempo negato all’innovazione, alla cura del prodotto, ai viaggi per ricavarsi nuovi mercati esteri.

La lista delle assurdità potrebbe continuare. Ma vista così, questa non è solo una nuova recessione: la storia è piena di Paesi che a un certo punto entrano in fasi di declino di lungo periodo. L’economia argentina era davanti a Francia, Germania e Italia nel 1914, con un reddito medio per abitante fra i più alti al mondo. Un secolo dopo l’Argentina è quasi un paria internazionale, il reddito sceso al 43% dei più ricchi. Fra il 1945 e il 1976 anche la Gran Bretagna è cresciuta di meno di metà del resto d’Europa. La Germania è stata il malato d’Europa negli anni ’90 e il Giappone ha già vissuto due «decenni perduti» (crescendo il doppio dell’Italia però).

Alcuni di questi Paesi si sono ribellati alle loro stesse contraddizioni, e ne sono usciti: Gran Bretagna o Germania insegnano. Il Giappone sta lottando per scrollarsi il declino di dosso, assumendosene i rischi e la fatica. Altri infine preferiscono abbaiare ai capri espiatori, i plutocrati, George Soros, la Merkel o la Bce, e restare in trappola. L’Argentina è un monito anche per noi. Ora più che mai, dobbiamo decidere dove vogliamo andare.
                                                                                                                                                                                         

sabato 2 agosto 2014

Italcardano, i pregiudizi fanno male a tutti

Nel caso dell'Italcardano, assisto con perplessità alla deriva poco logica del normale rapporto fra fonti e informazione. L'informazione in questi ultimi anni è molto cambiata: non solo non ci sono più le ferie signora mia, non solo è sparito l'esodo del primo agosto; non solo ha chiuso l'Unità (che dispiacere), ma il web si sta mangiando l'accesso alle notizie, un tempo appannaggio della sola carta stampata. Ne soffrono tutti i giornali del mondo, dal New York Times alla Gazzetta di Lorini. E lo dico per fare un paragone di larga scala, non per vendicarmi di un foglio i cui strali continuano ad essere indirizzati soltanto a me, che sono rimasta l'unico male del mondo e non ho fatto una cosa buona - una - in 5 anni. 

E poi, dicevo, ci sono i blog, moltissimi nel mondo, proprio come quello di Mauro Novo e questo, che parlano delle città e delle comunità, dei loro problemi, delle loro allegrie (poche, di questi tempi). Tocca farsene una ragione, vivere nel presente.  


Mi dispiace che alla base del trattamento subito da parte di Mauro Novo davanti all'Italcardano, sia da alcuni operai che dalle RSU, ci sia un pregiudizio che non tiene conto dello specifico dei blog, e che non fa bene alla causa dei lavoratori e nemmeno all'immagine del Sindacato, alle prese con una vertenza difficile in un'azienda che attraversa un momento (lungo, in verità) di crisi.


Non è certo il silenzio quello che giova, come se si trattasse di un affare aumm-aumm, e non invece di un argomento che tocca la vita e i portafogli già duramente provati di molti crescentinesi, e non solo. 


Vietate le foto e le dichiarazioni a Mauro, che è andato fin lì a documentare con la consueta precisione e diligenza questo affaire di cui si è molto parlato. Attacchi, oltre che a lui, anche a questo blog, del quale si parla e spesso non con simpatia: sarà anche perché io per 4 anni e qualcosa ho come lavorato in una dépendance della multinazionale, e conosco e non ho apprezzato alcuni metodi che altri invece continuano ad apprezzare, malgrado tutto.  


Sono stata io la prima ad affrontare l'argomento Italcardano sul blog, perché mi sono arrivate notizie precise dall'interno, di persone che già erano state contattate dai vertici in vista delle "novità". Nelle poche righe, oltre a dare genericamente la notizia, offrivo solidarietà ai lavoratori e spazio al Sindacato che non si è fatto vivo. Ho commesso un reato? Certo che no. Un blog dà legittimamente notizie, e ne chiede. 


Sono arrivati naturalmente molti commenti, sia su Mauro at Large che qui, e molti anonimi. E' noto che invoco sempre la glasnost, ma non ce l'ho fatta per ora a far firmare la gente, ancora grazie che si danno un nick (io altrimenti non pubblico, almeno quello...). Il Sindacato si è indispettito, mi dice Mauro, per le critiche che gli sono state mosse. Ma nessuno è più intoccabile: anche questo succede, non solo la miseria imperante, la scomparsa delle ferie, la chiusura dell'Unità. Quel che si legge, dovrebbe anzi essere utile ai rappresentanti dei lavoratori per le proprie valutazioni complessive.


Insomma, il comunicato che c'è e non arriva, il rifiuto di dare informazioni a un organo locale di informazione, sono segni di un pregiudizio che non fa onore a chi ce l'ha. Sono sintomi di passatismo, che non giova alla causa del futuro dell'azienda ormai storica sul nostro territorio. Pensiamoci, tutti.