venerdì 14 dicembre 2018

Renzi permetta al PD di essere un partito di opposizione

Con il titolo qui sopra, del suo fondo pubblicato su La Stampa di ieri, Federico Geremicca sembra aver dato chiarezza a un pensiero confuso ma diffuso.
Lo pubblico con tutto il cuore 

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A cinque anni esatti dall’elezione con la quale il «popolo delle primarie» lo scelse come segretario del partito (con un plebiscitario 67,5 dei consensi), il Pd avvia il suo complicato iter congressuale e archivia la lunga parentesi renziana in un clima di mestizia e confusione. Varrebbe dunque la pena di soffermarsi sul senso ed i risultati dell’era-Renzi, provando ad andar oltre quel che è sotto gli occhi di tutti: anche perché è proprio quel che ancora non si vede il problema più serio che è di fronte al Pd.
Quel che si vede, naturalmente, sono i risultati elettorali ottenuti in questi 5 anni - fino al minimo storico del voto del 4 marzo - e la decimazione di un gruppo dirigente ridotto, ormai, quasi a niente. Per ragioni diverse, infatti, il Pd renziano ha perso o messo ai margini padri fondatori (come Prodi e Veltroni), ex premier (come Letta e Gentiloni) e dirigenti storici del centrosinistra italiano (da Bersani a Rosy Bindi, passando per decine di altri). Per non parlare, naturalmente, della rottura personale tra l’ex sindaco di Firenze e Napolitano, e del grande gelo calato tra Renzi e l’attuale inquilino del Quirinale, Sergio Mattarella.
Il Pd che va a Congresso, dunque, è un partito che ha letteralmente cambiato pelle, mutando - assieme al suo gruppo dirigente - linea politica, identità e radicamento sociale. In cinque anni si è trasformato da una grande forza popolare (quella delle periferie e delle «regioni rosse») nel cosiddetto «partito ztl», per dire di un movimento presente quasi solo negli eleganti e ricchi centri storici delle grandi città. 
È possibile, insomma, che nel lontano dicembre 2013 - quando Renzi divenne segretario - il Pd avesse bisogno di novità e di una qualche scossa: i fatti, però, hanno dimostrato che la terapia imposta era sbagliata, e che molto non ha funzionato. Ed è precisamente da qui, dalle condizioni della ripartenza, che cominciano i guai peggiori del Pd: quelli che ancora, per dir così, non si vedono con la necessaria chiarezza.
Il problema numero uno sembra oggi essere addirittura quello della rappresentanza. Un partito infatti nasce (o rinasce o si rilancia) con l’ambizione di rappresentare umori e interessi di una parte della società: di chi vuol essere bandiera e portavoce il «nuovo Pd» non più renziano? Più precisamente: quali umori e quali interessi intende difendere nel pieno della bufera sovranista? Ha un’idea di Paese da proporre, diversa da quella tutto ottimismo ed eccellenze su cui ha puntato Renzi? Un Congresso come si deve, dovrebbe partire da qui: ma un Congresso come si deve non si celebra a un anno di distanza dalla più clamorosa delle sconfitte e non prevede che il segretario uscente (intendiamo Renzi) vesta i panni incongrui del guastatore.
RenL’ex presidente del Consiglio - si sa - non ha mai amato il Pd. Il disamore, certo, è stato ricambiato: ma questo non sposta la questione. Negli ultimi mesi ha fatto di tutto per sminuire e boicottare l’appuntamento congressuale: «Non me ne occupo», ha comunicato con qualche sprezzo. Ha fatto sapere, però, che ha pronti un libro e una tv, e che i suoi comitati civici sono al lavoro. Secondo molti, Renzi è pronto a un movimento tutto suo. Può essere: e non c’è nulla di scandaloso. Per una volta, però, provi a esser generoso col partito grazie al quale è arrivato fino a Palazzo Chigi: se deve andare, vada. Metta fine a questa lugubre commedia. E permetta al Pd di provare a ripartire, e a questo Paese di avere un’opposizione degna di tale nome.

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