domenica 11 gennaio 2015

No, non siamo in guerra con Allah (riflessioni dopo Charlie a Parigi)

Ho pensato che qualcuno potrebbe essere interessato a conoscere l'analisi di Mimmo Càndito (per i distratti: è anche mio marito) sui momenti drammatici che stiamo vivendo) 

Di Mimmo Càndito
dal blog "Il villaggio (quasi) globale"

No, non siamo in guerra con Allah perché non siamo in guerra con i 90 milioni di musulmani di Egitto, né con i 38 milioni di musulmani del Marocco, o i 35 milioni di musulmani di Tunisia, o i 240 milioni di musulmani dell'Indonesia, o i 150 milioni di musulmani indiani, o i 180 milioni pakistani, o quelli del Libano, del Mali, dell'Arabia Saudita, degli Emirati, dell'Iran, della Giordania, del Sudan, del Niger, e nemmeno con quelli della Libia o della Siria. E dico provocatoriamente che non siamo in guerra con tutta quella gente, e con il loro Allah, per riaffermare invece con più vigore il giudizio che nemmeno essi, ma nemmeno Allah,  sono in guerra con noi. 
Quanto è accaduto a Parigi, certamente terribile, angoscioso, anche seriamente preoccupante, impone una riflessione che non sia soltanto quella istintiva e traumatizzante della paura d'una minaccia che non siamo in grado di controllare. Perché quello, invece,  è l'obiettivo del terrorismo, creare cioè  l'ossessione d'un pericolo che non si può prevedere né misurare, e di conseguenza cedere la razionalità, rifugiarsi nell'attivazione d'una prevenzione dura, repressiva, che mortifica ogni quota di libertà in cambio d'una illusione di sicurezza. 
Ho letto quasi tutti i commenti dei grandi giornali, molte cose sono condivisibili e su altre occorre comunque un qualche distinguo. Ma non intendo fare qui un "digest" approssimativo e forse non del tutto imparziale, né intendo approfondire la divisione tra sunniti e sciiti che, eppure, è rilevante all'interno di una analisi delle tensioni mediorientali oggi. Preferisco richiamare l'attenzione su alcuni aspetti di questa storia amara che meritano un rilievo particolare. Anzitutto, ho dichiaratamente titolato che "non siamo in guerra" perché nel fondo di molti commenti, e di molte reazioni che tutti abbiamo potuto ascoltare parlando con amici o guardando le tv, si agita scomposto e minaccioso questo fantasma, che rischia di dettarci su quale terreno noi dobbiamo valutare la strage dello "Charlie": che, appunto, c'è ormai una guerra in corso, e quanto accade nel territorio dell'Is tra Siria e Iraq o in Nigeria con i Boko Haram o a Parigi con i due macellai francoalgerini o in Israele quando viene lanciata un'auto contro la folla o a Boston quando si corre una maratona, tutto questo, insomma, fa parte d'una guerra unica scatenata contro l'Occidente e che, pur nella diversità degli episodi, riceve una identificazione comune, dettata dall'odio del mondo musulmano verso gli "infedeli". E a una guerra si risponde con una guerra. 
La realtà (e tutti noi che viaggiamo ripetutamente nei paesi musulmani ne siamo testimoni diretti) è che, nel miliardo e 400 milioni di musulmani della Umma, l'adesione a una guerra contro gli "infedeli" è assolutamente marginale, in una consistenza numerica che va al massimo di alcune decime di migliaia di militanti o di sostenitori attivi. Probabilmente non supererà di molto il numero di centomila, che è tanto ma che ugualmente è nulla rispetto ai 1.400 milioni di musulmani. E però è altrettanto reale e importante che, in quella dimensione globale della Umma che non si riconosce nella guerra, vi sono diffuse disponibilità potenziali a sentire come legittima - e perfino condivisibile astrattamente - la "necessità" di difendere con durezza le ragioni fondanti della ortodossia musulmana. Queste disponibilità raramente si trasformano in appoggio reale, partecipe, ma sono comunque presenti e costituiscono il terreno nel quale la militanza militare cerca di arare un consenso e un'adesione. 
Perché? Perché l'obiettivo dei gruppi militanti è di polarizzare la consistenza della realtà, trovare adesioni e arruolamenti nelle loro file in modo da ridurre sempre più la complessità del reale a uno scontro "o noi o loro", o comunque a una divisione teologica tra "loro", l'Occidente, gli infedeli, il Male, e "noi", che siamo i fedeli di Allah e i difensori della religione e dunque il Bene e il Giusto. E poiché nel mondo musulmano - che non ha avuto una "pace di Vestfalia" - non vi è distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, la difesa della ortodossia religiosa viene vissuta come baluardo integrale della stessa identità individuale e sociale. Se gli "infedeli" osano criticare o far satira sui valori fondamentali della pratica religiosa vanno attaccati perché mettono in discussione la stessa natura e qualità delle società musulmane. Questo "attacco" è talvolta un disgusto, un rifiuto di costumi e stili di vita che - in contrasto con la tradizione che tende a conservare le stesse modalità sociali di un passato lontano - vengono considerati come simboli evidenti di una decadenza destinata alla rovina, e talvolta invece - ma assai meno diffusamente - diventa la motivazione per una condanna da manifestare con la partecipazione attiva (la "guerra") al ripudio.  
(Vado avanti, se ancora avete pazienza a seguire la mia riflessione). Siamo dunque all'interno di una problematica specificamente culturale, che riguarda cioè la "cultura" di un popolo o comunque di una società costituta da varie società nazionali. Questa "cultura" deve misurarsi ogni giorno con le forme d'una modernizzazione che supera ormai (nel mondo globalizzato) qualsiasi frontiera, per cui la coesistenza tra le modalità proprie del consumo moderno - la tv, le auto, le forme industriali di produzione, l'elettronica etc - e la difesa di una integrità musulmana aderente a una lettura tradizionalista del Corano si fa occasione di contraddizioni che non sempre si risolvono. E, nel disagio di una contraddizione irrisolta, che provoca perdita di identità, squilibri psicologici, affanni difficilmente gestibili, la predicazione della purezza delle origini, perfino la difesa di chi si fa militante di una causa che appare "giusta", offrono un recupero rassicurante di identità, o comunque una tentazione molto consistente. Se le donne dell'Occidente si comportano come puttane, con i loro costumi irrispettosi di qualsiasi tradizione di pudore e riservatezza, allora occorre far di tutto perché le nostre donne, di noi musulmani, non abbiano a subire la contaminazione di simili comportamenti, che rischiano di distruggere i principi fondamentali della società musulmana e il ruolo che in essa hanno uomo e donna. (E questo é soltanto un esempio). 
Operativamente, il risultato di questo scompenso difficilmente assorbibile è quella che definivamo come una tendenziale disponibilità a guardare magari con qualche malcelata simpatia la battaglia di chi fa la "guerra" contro simili corrotti "infedeli",  o comunque la difficoltà diffusa a schierarsi in una condanna ferma e definitiva di quella "guerra". Appare perciò significativo che questa condanna arrivi piuttosto (e quasi esclusivamente) da chi nelle società musulmane ha ruoli istituzionali e identità culturalmente elevata. In altre parole, siamo di fronte a società nazionali accora molto arretrate nella scolarizzazione, e dunque facilmente permeabili da pratiche mitologiche, che la sofferenza delle contraddizioni tra modernità e tradizione la depositano in un rifugio rassicurante di identificazione religiosa/naziomalista ortodossa. 
C'è poi un ulteriore aspetto, che sta dentro il fantasma della "guerra": la predicazione che dice che noi Occidente siamo imbelli, ormai incapaci di difendere attivamente i nostri valori, la nostra stessa identità, e perciò cediamo progressivamente terreno alla aggressività perfino belligerante che hanno i popoli musulmani. E' lo stesso tema che propose con molto vigore Oriana Fallaci al tempo dell'attacco alle Twin Towers, e tuttora ricordo le intense discussioni che per interi pomeriggi ne avemmo in una Kabul ancora in guerra, tra l'ottobre e il novembre del 2001, con Bernardo Valli e Tiziano Terzani (che era colui che con maggiore forza intellettuale si era prodotto contro la tesi della Oriana sulle pagine del "Corsera"). Come allora, anche oggi resto convinto che alcuni elementi del teorema di Oriana siano espressione di una realtà concreta ma alla fine il teorema si autodistrugge. Alcuni anni fa, in America ebbe grande successo un libro (di Kaplan, mi pare, lo lessi negli Usa) che descriveva l'Europa come Venere e invece gli stati Uniti come Marte; non v'è dubbio che i 60 milioni di morti della Seconda guerra mondiale e le distruzioni patite in ogni parte del nostro continente abbiano prodotto una memoria che è fortemente condizionante per le scelte strategiche dell'Europa, quando il dibattito sia chiamato a confrontarsi con conflitti potenziali, al contrario di quanto fanno invece gli Usa che (anche per altre ragioni storiche e culturali) mantengono uno spirito nazionale più fortemente attivo, interventista. Alla luce di questa diversità palese, la definizione, dunque, di un Occidente integralmente imbelle pare malata piuttosto di eurocentrismo, e si sgonfia grossolanamente quando si piega alla lettura d'una realtà dove alcuni comportamenti marginali (cioè di piccole minoranze o di individui isolati) vengono valutati come espressione del comune sentire di tutta una identità "nazionale" di 1.400 milioni di persone. La rilevanza mediatica degli episodi di "qualità vitale" del mondo musulmano - gli attentati, le stragi, la militanza militare del terrorismo - rischia di ingannare la lettura della realtà, facendo confondere la forte eventizzazione di singoli episodi come la rappresentazione della intera realtà. 
Chiudo con la segnalazione di un ulteriore elemento, utile alla comprensione di quanto accade in questa "guerra". Una decina di anni fa Dominique Moisi pubblicò un volume che aveva un titolo molto interessante: "Geostrategia delle emozioni". Il politologo francese esprimeva il convincimento che, nel disegno delle strategie globali, hanno un ruolo non soltanto gli elementi della politica e le ragioni della economia ma anche "le emozioni", il sentire comune dei leader e dei popoli che essi guidano. Tralasciando qui l'Occidente e l'Oriente, Moisi proponeva come elemento caratterizzante della psicologia individuale e collettiva delle società dell'Islam la "umiliazione", o comunque il "risentimento". Diceva la sua tesi che i popoli musulmani, che a lungo erano stati forza vitale e centripeta della storia della umanità, oggi avvertono di essere al margine della Storia, che gli passa accanto quasi ignorandoli; prima l'Occidente, e oggi l'Oriente, appaiono come il fulcro autentico della evoluzione del mondo, ma in questa evoluzione l'Islam non ha più da tempo, da molto tempo, da troppo tempo, alcun ruolo attivo. Il Califfato, le adesioni diffuse nell'Islam al Califfato, la simpatia con cui comunque nel mondo musulmano si è portati a guardare alla "guerra" contro gli infedeli, sono espressioni del desiderio di rivalsa da questa "umiliazione", di un "risentimento" che ora preme per avere una vendetta, il recupero d'un guadagno storico. 
(Ovviamente, non scrivo nulla sull'attacco alla libertà del pensiero e al diritto di manifestare liberamente ogni atteggiamento critico verso tutto e verso tutti, perché di questo hanno scritto paginate intere tutti i giornali. E invece giudico un amaro segno di conferma alla tesi della Fallaci quanto ha scritto Barber sul "Financial Times", giudicando lui sostanzialmente inopportuna la satira di "Charlie" su Maometto e l'Islam: cedere alle pressioni delle armi e del terrorismo, manifestare già una sorta di autocensura, è una strada pericolosa, per tutti ma soprattutto per chi fa il giornalista e ha come primo dovere quello di non tradire la solidarietà verso chi si batte in difesa della ragione critica) 

6 commenti:

ateo/a ha detto...

Ringrazio Dio di essere ateo/a,
, ma mi domando qual è il limite della satira.
io sono ateo/a in mezzo a cristiani, ma non mi permetto di mancare mai di rispetto alle loro convinzioni, così pure a tutte le altre religioni, perché so quanto male fanno le parole.
Sulle questioni morali (tutte le questioni morali, aborto, pena di morte, eutanasia, ecc) bisogna stare molto attenti, perché il limite è impercettibile.
Alla luce di questi fatti, mi chiedo se le religioni sono un bene o un male?
A quante guerre di religione dobbiamo ancora assistere?
Non dimentichiamo che i gesuiti non erano meno intransigenti di questi, è solo cambiato il tempo e i mezzi, ma tutto è sempre uguale
Quando ci evolveremo?

stefano ha detto...

commento , anzi riflessione sulla mossi e ghisolfi , da non pubblicare
.ma da utilizzare come base da approfondire

http://www.sardiniapost.it/cronaca/il-sulcis-alle-prese-con-il-dilemma-bioetanolo/

Anonimo ha detto...

Apprezzo lo spirito di fondo e parzialmente l'analisi del mondo musulmano di Candito, ma temo per lui e per noi che sia ancora permeato da una ideologia di sinistra vecchio stile e terzomondista. Continua a sottovalutare l'ampiezza e la profondità della differenza fra il mondo musulmano e quello occidentale. Questo mondo non è rimasto isolato per motivi marziani o per l'usura del tempo, ma proprio per la sua impossibilità di separare il testo coranico da qualsiasi forma di laicità, che lo blocca, lo rinchiude, impedisce qualsiasi evoluzione. L'illuminismo arabo dei primi tempi (ma quali? L'islam si è sempre esteso con la spada, non faccia confusione con i gesuiti o con la Conquista, sono cose molto diverse, e per cortesia non mi parli delle crociate perchè allora mi deve rispondere cosa ci facevano i musulmani nella terra degli ebrei e dei cristiani bizantini e dei palestinesi pre coranici e come ci sono arrivati), è stato favorito della sua debolezza iniziale che ha permesso l'integrazione della sapienza e delle conoscenze dei popoli conquistati, all'epoca fra i più progrediti, dai persiani ai bizantini agli indiani. Quando il processo si è concluso e l'Islam è stato così forte da soffocare gli apporti esterni è iniziato il declino. Non ci sarà mai un Galileo o un Copernico o un Newton o un Voltaire nell'Islam. Non avrebbero un humus culturale in cui nascere e propagarsi. Candito, se è obiettivo questo non lo potrà negare. Non sopravvaluti come causa la scarsa scolarizzazione e nemmeno la classe "alta", perchè questi stessi "alti" se messi in un contesto prevalentemente islamico si comporteranno ne più ne meno che come gli altri, non fosse altro per non perdere la loro superiorità. L'Islam è uno, chi non lo rispetta è fuori.
Per rispondere al commento precedente, non siamo in presenza di una guerra di religione, almeno dal punto di vista islamico, dal momento che per loro la religione è tutto. Se guerra la si vuole chiamare, è guerra totale.
Raimondo di Tolosa

MV ha detto...

Gentile Raimondo, ho provato a chiedere a Mimmo di ribattere, ma dice che non dialoga con gli anonimi. Sorry))

Anonimo ha detto...

Sono convinto che non ha detto proprio tutto quello che pensa, ha l'esperienza e l'obiettività per aver capito che piega sta prendendo la situazione, però immagino gli sia difficile ammetterlo e cerca giustificazioni, valide per piccoli dettagli ma non per l'aspetto generale. Le cerca più per lui che per i lettori.
Ah.. dimenticavo, non solo non esisterebbero i personaggi importanti che ho precedentemente citato, ma nemmeno i Candito e le Venegoni. Se ne faccia una ragione... è l'amara realtà. Nel momento in cui scomparisse l'Occidente scomparirebbe anche l'Islam moderato.
Mia opinione ovviamente.
Raimondo di Tolosa

MV ha detto...

Eh caro Raimondo, Tolosa è lontana e il suo è purtroppo un monologo. Lui non risponde. Non ha le spalle larghe come me)))