domenica 12 marzo 2017

Renzi e i suoi muscoli, dopo il Lingotto/Leopolda



Chissà quanti avranno avuto il tempo (o la voglia) di seguire i lavori della convention renziana al Lingotto di Torino. Per chi ne voglia capire di più, per farsi una propria idea, ho pensato di riproporre un'analisi di Massimo Giannini (che qualcuno avrà visto l'anno scorso condurre "Ballarò", e poi non più) apparsa domenica mattina 12 marzo sulla prima pagina di Repubblica.



IL LINGOTTO è una bella idea. Peccato che la "ripartenza" si fermi alla solita stazione: la Leopolda. In questa tre giorni di rifondazione di una leadership, Renzi si presenta "commosso" al suo popolo, ma con i soliti "muscoli del capitano" sulla solita nave che De Gregori cantava vent'anni fa: fulmine, torpedine, miccia, fosforo e fantasia. Era il Titanic, e sappiamo come andò a finire. Non è detto che per questo "Renzi reloaded" vada allo stesso modo. Anzi, è probabile che rivinca le primarie (anche se è più difficile che poi vinca le elezioni).


Ma non c'è molto di nuovo, nel leader che prova a rimettere in moto il Pd nel luogo dove tutto è cominciato, dieci anni fa. Le suggestioni lessicali, dal partito pesante al partito pensante. Le citazioni culturali, da George Orwell a Olof Palme. Certo, finalmente si è sentito risuonare più volte il pronome "noi", e non il pronome "io". Ed è un bene. Il rammarico è che se questa dimensione collettiva e inclusiva fosse emersa prima, forse, il partito si sarebbe risparmiato la scissione.

Ma al di là di questo, nel "nuovo" Renzi della convention torinese manca ancora il salto di qualità rispetto al "vecchio" Renzi della kermesse fiorentina. È convincente l'analisi sulla "diversità" della sinistra (unico argine in Europa di fronte all'onda sovranista e populista che tutto sommerge in nome della paura). È insufficiente la riflessione sulla sua vera "identità". Per essere davvero un "partito di eredi", e non di "reduci", il Pd dovrebbe sapere cosa c'è da salvare, in quell'asse ereditario. E invece non lo sa. Non sa dire come si difendono i diritti sviliti nel lavoro e nella globalizzazione. Non sa spiegare come si combattono le povertà emergenti e le disuguaglianze dilaganti.

Non lo sa perché, se c'è un limite nel renzismo, sta proprio in questo deficit di visione. C'è una entusiasmante "energia futurista", c'è un'apparente "bulimia riformista" (come dice Tommaso Nannicini). Ma quello che manca è un nuovo disegno di società. A chi parla il Pd, dopo la sconfitta del partito della nazione? Quali pezzi di Paese deve recuperare, dopo la disfatta referendaria del 4 dicembre? Per rideclinare i valori della sinistra moderna non basta il vago "prendersi cura" post-veltroniano. Non basta la parola "compagni" (che sulla bocca di Renzi suona come un esorcismo, più che un virtuosismo). Soprattutto, non basta il fantasma di Gramsci, perché è proprio sulla nuova "egemonia culturale" da sottrarre ai Cinque Stelle che il Pd ha le contraddizioni più patenti, e quindi le responsabilità più pesanti.

Renzi denuncia la deriva anti-sistema e la delegittimazione degli istituti della democrazia rappresentativa. Contesta l'offensiva anti-casta e la devastazione dei principi del garantismo giuridico. Ma mentre accusa giustamente di tutto questo i pentastellati, dovrebbe guardarsi allo specchio. E dovrebbe riflettere, proprio in termini di "egemonia culturale", su quanto ha ceduto lui stesso a quello che ho definito "grillismo di palazzo", inseguendo la piazza invece di governarla. Quando ha presentato agli italiani il referendum costituzionale come "uno strumento per tagliare finalmente le poltrone e i costi della politica". Quando ha giustificato l'urgenza delle elezioni anticipate a giugno con la necessità di "impedire che i parlamentari intaschino il vitalizio". Quando ha preteso le dimissioni di ministri neanche indagati, ma tutt'al più impelagati in pasticci familiari molto simili al suo (da Idem a Cancellieri, da Lupi a Guidi). Persino quando ha lanciato la piattaforma dem per il web e l'ha chiamata "Bob", per contrapporla al "Rousseau" della premiata ditta Casaleggio & Associati.....

Oltre che una "missione identità", Renzi deve poi compiere una "operazione verità". Non solo sulla vicenda Consip e sul Giglio Magico, quanto sullo scenario politico nel quale precipita la sua "ripartenza", da candidato segretario e poi da candidato premier. Uno scenario non più maggioritario, che dunque implica un cambio di paradigma della "vocazione" del Pd. Un partito non più auto-sufficiente, che dovrà invece ri-federare una sinistra logorata, incattivita e divisa. È lui l'uomo giusto, per tentare l'impresa? Con quali basi programmatiche? Con quali alleanze politiche per il dopo-voto? Pisapia-Bersani- D'Alema o Berlusconi-Alfano-Verdini? È la stessa domanda che gli rivolge l'ex sindaco di Milano dal Teatro Brancaccio, alla presentazione del suo "Campo progressista". Ed è una domanda non più eludibile.


L'unica cosa certa è che, per quanto fiaccato e ferito, il Pd resta il solo avamposto possibile intorno al quale ricucire la tela strappata delle riforme in Italia, e il solo cardine possibile intorno al quale riorientare la democrazia minacciata in Europa. Resta da capire se sarà all'altezza del compito. La ricerca velleitaria di un ipotetico "oltre" non ha funzionato, perché "oltre la sinistra" c'è solo la destra, quella del partito- azienda di Berlusconi o quella del partito-algoritmo di Grillo. La rincorsa identitaria a un generico "altro" non ha pagato, perché
l'Italia di Veltroni e Renzi non è l'America di Kennedy e Obama. È la tragicomica lezione che ci ha lasciato a suo tempo il grande Edmondo Berselli: " I care, we can, they win... ". Quell'errore, oggi, la sinistra non se lo può più permettere.

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