Era un uomo con la schiena dritta, uno studioso che guardava avanti. Per chi volesse saperne di più, questo è l'articolo che ieri Riccardo Barenghi, meglio conosciuto come Jena per le sue frasi folgoranti ed ex giornalista del Manifesto, ha scritto in memoria di Rodotà su "La Stampa".
Morto Rodotà, una vita per libertà e diritti
Il giurista aveva 84 anni. Docente emerito, ha sempre legato l’impegno culturale alle battaglie civili Parlamentare della sinistra indipendente, entrò nel Pds. I grillini lo avevano candidato al Quirinale
Si può dire che Stefano Rodotà, scomparso ieri dopo una malattia a 84 anni, è sempre stato dalla parte di quelli che non avevano diritti, o ne avevano pochi, gli immigrati per esempio (lo ius soli è stata una delle sue ultime battaglie), ma non solo loro. Sia come giurista, costituzionalista era la sua «professione» principale, sia come politico, mestiere che cominciò nel 1979 ufficialmente quando fu eletto alla Camera come indipendente nelle liste del Pci di Enrico Berlinguer. All’epoca faceva coppia con un altro giurista, Franco Bassanini, spesso e volentieri le battaglie le facevano insieme. Sono passati quasi 40 anni da quando Rodotà è entrato in politica, senza tuttavia smettere mai di fare il suo mestiere fondamentale, quello appunto di costituzionalista. È stato capace durante tutto questo tempo, di amalgamare politica e diritto, anzi diritti, tenendoli insieme in una produzione enorme di libri, articoli di giornale (scriveva soprattutto su Repubblica e ogni tanto, sul Manifesto), interviste e interventi in convegni, congressi e ovviamente in Parlamento fino a quando c’è stato.
Naturalmente è stato professore universitario, ha insegnato in Italia e all’estero. Da giovane si era iscritto al Partito radicale («L’unica tessera che abbia mai avuto»), Marco Pannella gli aveva anche proposto di candidarlo alle elezioni. Ma lui rifiutò, preferendo entrare in parlamento attraverso il Partito comunista, seppur come indipendente. Non sono anni facili, in Italia le Brigate rosse avevano rapito e ucciso Moro, Rodotà si schierò contro le leggi di emergenza volute da Francesco Cossiga e votate anche dal Pci. Resterà deputato fino al 1993, anno in cui si dimette a sorpresa subito dopo essere stato eletto vicepresidente di Montecitorio. Lapidaria la sua motivazione: «Ingrata politica non avrai le mie ossa».
Ma certo non l’abbandona, la politica, tutt’altro. Aderisce al Pds di Achille Occhetto, ne diventa addirittura presidente senza però condividerne fino in fondo il progetto. La sua presenza si sente ovunque durante gli anni della Seconda Repubblica, di Berlusconi parla e scrive di tutto, naturalmente contro: «Siamo alla rottura dei fondamenti di un moderno Stato democratico», disse a Rina Gagliardi del Manifesto dopo che Berlusconi aveva incassato la sua prima fiducia nell’aprile del 1994. Col primo governo Prodi diventa Garante della Privacy, ruolo in cui resterà fino al 2005. Sono gli anni in cui è nata la rete e con essa tutti i problemi che riguardavano e riguardano la diffusione dei dati personali. Non serve dire che è sempre stato un garantista, di quelli più puri: nel senso che non ha mai avuto secondi fini.
Col partito principale della sinistra (Pds-Ds-Pd), il suo rapporto non è mai stato facile, anzi via via che quel partito si trasformava Rodotà se ne allontanava avvicinandosi leggermente alla sinistra più sinistra, senza tuttavia mai entrarci a pieno titolo malgrado corteggiamenti e offerte. Né nella Rifondazione di Fausto Bertinotti né nella Sel di Nichi Vendola.
Nel 2013, Rodotà è candidato dalla consultazione on line del Movimento Cinquestelle alla Presidenza della Repubblica. Ma non viene eletto, il Partito democratico non gli dà i suoi voti perché non poteva accettare un personaggio troppo autonomo intellettualmente e per di più «grillino» (anche se lui non lo è mai stato). Al suo posto viene rieletto Giorgio Napolitano.
Poco tempo dopo il segretario del Pd Pier Luigi Bersani si dimette e al suo posto si insedia il «traghettatore» Guglielmo Epifani, in attesa dell’arrivo di Matteo Renzi. In un’intervista al nostro giornale, del 13 maggio di quell’anno, Rodotà non è tenero verso il Partito democratico: «Le due culture politiche che dovevano amalgamarsi non sono neanche riuscite a dialogare tra loro». E di Renzi, cosa pensava? «Non mi piace l’ideologia del nuovismo nel metodo e molti contenuti nel merito, a cominciare da quelli sul lavoro». Una profezia che si è poi avverata, non a caso al referendum sulla Costituzione Rodotà ha votato no.
Il professore lascia la moglie Carla e due figli, fra cui Maria Laura, giornalista che in passato ha lavorato anche per la «Stampa».
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