sabato 16 agosto 2014

L'elogio dell'ipocrisia e le pericolose pratiche zen

Questo è soltanto l'inizio di un lungo articolo di Alessandro Piperno apparso la prima domenica d'agosto su "La lettura" del Corriere della Sera. Il resto del dottissimo percorso si sviluppa secondo parametri letterari, ma il succo che leggerete ha provocato vivissime discussioni in rete, e diviso i pareri. 
Oltre la sincerità e l'ipocrisia, c'è una terza opzione, il silenzio, che ho imparato in questi anni volendo portare a termine una situazione a dir poco difficile. Certo, una cosa è la vita e una cosa la "politica" (con mille virgolette). Da quest'ultimo punto di vista non lo consiglio tanto perché fa male, il silenzio: non allo spirito, se è temprato, però poi ho capito che è il fisico a ribellarsi, e ti vengono fuori cose tremende. A me (per ora) è ancora andata abbastanza bene; sono solo stata 15 giorni senza poter camminare, fino a pochi giorni fa; ma dallo stesso giorno in cui io mi sono bloccata all'improvviso, mio cugino primo Gianni - che ha cominciato e finito in Liguria un mandato di sindaco come me, e aveva (amministrazione di destra) una situazione assai turbolenta in Giunta, e ha praticato il mio stesso esercizio zen - da quello stesso giorno è all'ospedale con emorragia cerebrale, e per fortuna si sta riprendendo e non subirà danni.  Lui non si è nemmeno fatto saltare il tappo però, mai, fino alla fine (io, almeno, sì). 
Dico fin d'ora a chi fosse stufo di queste considerazioni, di non praticare il blog "Amare Crescentino".
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di Alessandro Piperno
Tanti anni fa, nel dedalo di viuzze che ancora oggi compongono il vecchio ghetto di Roma, si aggirava una signora un po’ stramba a cui nessuno rivolgeva la parola. Si diceva fosse stata una ragazza spigliata, sbarazzina, straordinariamente procace. Qualcosa doveva essere andato storto se la sua occupazione odierna consisteva nel battere le vie del ghetto con un cane immaginario al guinzaglio. Lo vezzeggiava, lo rimbrottava continuamente, suscitando la costernazione dei passanti. Quando la vidi per la prima volta stavo accompagnando mio nonno da un cliente. Ero abbastanza piccolo da trovare sbalorditiva la vista di una signora che parla con un cane inesistente. Immaginate allora il mio stupore quando mio nonno si chinò sull’invisibile bestiolina chiedendo con disinvoltura: «Come si chiama questo adorabile cagnetto?». «Si chiama Zeta».
Ho un ricordo abbastanza preciso della mia indignazione. Come poteva mio nonno farsi beffe della follia di un’alienata? Non aveva alcun rispetto per lei? Cosa lo aveva indotto a un così impudente gesto di scherno? Pochi giorni dopo, mio nonno ed io ci imbattemmo ancora nella signora. Stavolta fu lei ad avvicinarsi e a sorriderci. «Mi scusi, dottor Piperno, Zeta voleva farle le feste!». Fu allora che capii che la sollecitudine con cui mio nonno aveva assecondato la pazzia della signora non aveva l’intento derisorio che le avevo attribuito. Era un semplice disinteressato gesto di cortesia.
Passa qualche anno. Sono vicino alla laurea. La mia arroganza trae linfa dal carisma sessuale conferitomi dalla mia nuova ragazza. È molto carina, ci adoriamo. Una sera siamo seduti al tavolo di una pizzeria in Prati quando entra una mia compagna di classe che ai tempi del liceo mi piaceva parecchio. Mi alzo e corro a salutarla. Quando mi risiedo, la mia ragazza, piuttosto immusonita, mi dice: «Non pensavo ti piacessero ragazze del genere». La gelosia è la sua debolezza. Ecco perché dovrei rassicurarla. Dirle che non mi piace alcun genere di ragazza, perché a me piace solo lei. E invece mi metto lì a concionare. Non solo mi piacciono quel genere di ragazze lì, ma anche un’altra dozzina di generi che lei non può neppure immaginare. Poi alzo il tiro, snocciolando verità a buon mercato: la monogamia non ha senso, è un’impostura puritana; tutti siamo potenziali adulteri, soprattutto quelli che dicono di non esserlo. La foga oratoria trova requie solo alla comparsa della prima lacrima sulla guancia della mia ragazza. L’ho insultata. L’ho resa inutilmente infelice. L’ho fatta piangere. E tutto in nome di una verità che ciascuno di noi conosce, ma che non è così urgente ricordare al prossimo.
Sono solo due esempi, tratti dalla mia esperienza, che mostrano in modo plastico quanto la sincerità sia sopravvalutata. Detesto le persone schiette. Quelle che ti sbattono in faccia quello che pensano. Che ti dicono che sei ingrassato, che hai scritto un articolo insulso, che mentre parlavi di fronte alla vasta platea erano tutti ipnotizzati dal pezzo di spinacio incastrato tra i canini del conferenziere. Per non dire di quelli che proprio ieri hanno visto la tua ex mano nella mano con un altro tizio («sembravano felici»). Mi fa infuriare la finta coscienza immacolata, la malafede travestita da buonafede. Trovo volgare la retorica del pane al pane. E invece ho un debole per le ragazze che dopo il sesso ti dicono che non è mai stato così bello, per gli oncologi pietosi, gli avvocati ottimisti, i ruffiani di ogni foggia e colore. Adoro gli ipocriti. Un grande scrittore francese del secolo scorso diceva che la sincerità è la bava del cattivo umore. Non sempre naturalmente, ma molto spesso l’esigenza di dire una verità spiacevole cela un’inconfessabile frustrazione, un malanimo dissimulato.

5 commenti:

unknow ha detto...

io leggo sempre :)

MV ha detto...

Meno male, mi tengo compagnia caro Unknow...

Gianduja ha detto...

Cara Marinella, a te manca il famoso pelo sullo stomaco. Non si va da nessuna parte senza quello. Hai fatto bene a smettere.

MV ha detto...

Vero Gianduja, né io né Gianni. Ma sono contenta di essere così. I napoleoni non sono un mio modello di vita.

mauro novo ha detto...

a volte la verità e' necessaria, a volte la verità va un po' edulcorata con una pillola di zucchero, ci sono altre volte che per salvarsi la vita o renderla meno amara la verità e' meglio non dirla e far sembrare vera una bugia

mauro novo