venerdì 1 marzo 2019

Ciao Mimmo. Il ricordo di Domenico Quirico: "Il giornalista che non fuggiva"

Come qualcuno ricorderà, il 3 marzo di un anno fa Mimmo Càndito, mio marito, se n'è andato lasciandomi davvero in una valle di lacrime. Stasera lo ricordano a Cuneo, dove gli hanno dedicato il ciclo di incontri "Resistenze di oggi" che si apre stasera con un suo ricordo. Domenica mattina alle 11, al Circolo della Stampa di Torino, ho invece invitato Don Ciotti a parlare di lui. 
Grazie se anche qualcuno di voi lo ricorderà. Non ho pensato per ora ad alcuna iniziativa a Crescentino, perché mi sembra che non ci sia il clima e non dico altro; e ancora ringrazio Fabrizio Greppi, che voleva intitolargli un premio, ma in vigilia di campagna elettorale (anzi nel ribollire, più che nella vigilia) non mi sembrava il caso. 
Nel frattempo, per chi non sa e avesse voglia di capire, eccovi un ricordo di Mimmo scritto da Domenico Quirico, anche lui reporter di guerra a La Stampa, comparso questa mattina su Torino Sette.



IL GIORNALISTA CHE NON FUGGIVA

ricordo di mimmo cÀndito a un anno dalla morte

Pubblicato il 01/03/2019
Rileggo un eccellente reportage di Mimmo Cándito sulla prima guerra d’Iraq. Il suo scrivere era un pensare ad alta voce. Ma è tremendamente difficile pensare ad alta voce.
Tutte le diatribe insulse sul declino del giornalismo, sul suo affondare in un panorama geologico, minerale, dovrebbero approdare a riletture come questa. Certo le vecchie formule non ci servono più e bisogna cercare un nuovo punto di equilibrio. Ma Càndito ci insegna che scrivere un articolo è anche un obbligarsi a non disertare, a non fuggire sé stessi. Un riaffermare che restiamo presenti. Uno sbarramento opposto alla tentazione del nulla che dilaga intorno a noi. 
E ci indica, lui infaticabile viaggiatore fino all’ultimo, che il giornalismo che si distingueva in passato per la vastità del respiro, per lo straordinario potere di vivere sulle strade, quelle prossime e quelle lontane, non deve trasformarsi in una mediocre letteratura di sedentari. Nel suo scrivere c’era il soffrire anche per gli altri, un soffrire quasi per osmosi.
Càndito apparteneva, come pochi altri che fanno questo mestiere, non all’esercito dei cinici ma alla pattuglietta striminzita di chi crede nelle cose grandi, il progresso dell’uomo, la verità, la ragione, la solidarietà, il diritto. Partiva con un taccuino per l’Africa o il vicino oriente con l’imperativo di personalizzare i fatti per capirli, sentirli meglio: sentire i fatti dell’uomo come fatti nostri, convertirli, se occorre, in una offesa per ciascuno. Detestare coloro che imbruttiscono il mondo.
Raccontava spesso guerre feroci e rivoluzioni talora tradite. Indicava senza ipocrisie su chi ricadevano quel sangue e quei fallimenti: le ideologie cieche, i brutali interessi che continuano a travagliare popoli bisognosi di civiltà, gli avventurieri loschi che trasferivano qua e là, per inselvatichire, le loro anime violente. Gli rimaneva in fondo ai suoi pezzi, una specie di grumo che rifiutava di sciogliersi e di versarsi in quelle architetture fredde che si sarebbero lette dopo, in qualche articolo di fondo scritto da altri. Questo grumo si chiama pietà.

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