domenica 8 novembre 2015

L'illegalità diffusa, il permissivismo e ia politica che ignora la scuola

Guardandoci intorno nel nostro caro Paesello, le occasioni culturali sono sempre più rare, anzi facciamo che dire inesistenti, se non fosse in questi giorni per le manifestazioni di San Genuario a cura di alcune ottime Signore. La mancanza di una stagione teatrale (scomparsa dall'Angelini con la fine della stagione 2013/2014) di fatto emigrata a Fontanetto con altra organizzazione, la rarità di occasioni di dibattito, buttano sulle spalle della scuola ogni possibilità di istruzione, educazione e dibattito, lasciando fuori il mondo degli adulti.
Ma non è che la scuola italiana tutta se la passi bene, anzi. La deriva della legalità nella nostra Nazione, gli ultimi imbarazzanti episodi in parecchi ambienti, ci ricordano che il rispetto di alcuni principi fondamentali del vivere civile viene vistosamente meno in Italia, e in un interessante e provocatorio articolo ne scrive, sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia. Credo ci riguardi tutti, e perciò eccolo qui. Non lo perdete...


           Che errore ignorare la Scuola
           di Ernesto Galli della Loggia
           dal Corriere della Sera del 5 novembre 2015. 
Diciamolo brutalmente: l’Italia appare sempre più spesso un Paese di ladri e di truffatori, o, se si preferisce un’espressione più forbita, dell’illegalità diffusa. Specie se si tratta della sfera pubblica, tutto appare in vendita e tutti comprabili, ogni appalto appare manipolato, ogni spesa nascondere una tangente, ogni privilegio è pronto a trasformarsi in un abuso mentre l’assenteismo truffaldino è la regola. 
Ma perché le cose stanno così? Perché da noi il disciplinamento sociale si mostra così debole? Perché da noi non funzionano quei meccanismi che servono a ricordare nelle più svariate occasioni che «non si può fare come si vuole», che ci sono delle regole necessarie alla convivenza per ogni violazione delle quali ci sono delle sanzioni? E perché queste non sembrano preoccupare nessuno? Un principio di risposta va cercato nella crisi profondissima che in Italia ha colpito da decenni (insisto: da decenni) la scuola, la quale - stante il forte indebolimento dell’istituto familiare, dell’influenza religiosa e la fine del servizio di leva - è divenuta da molto tempo l’agenzia primaria se non unica del disciplinamento sociale degli italiani: con esiti che sono sotto gli occhi di tutti. 
La scuola adempie a questa funzione di disciplinamento essenzialmente in due modi. Innanzi tutto, per l’appunto, con la disciplina: cioè inserendo il giovane in un ordine dato e non contrattabile fatto di orari, ruoli, obblighi di un certo comportamento, ed esigendone il rispetto. In secondo luogo impartendo un insieme di nozioni, le quali rappresentano però assai più che sparse conoscenze disciplinari. Nel loro insieme infatti esse costituiscono un patrimonio che affonda le sue radici nel passato e costituisce un’identità culturale messa a disposizione dello studente, implicando dunque un’idea della continuità nonché un’immagine della trasmissione da una generazione all’altra. Tutti elementi che, congiunti, implicano anche un’idea forte del legame sociale. 
Ma importa a qualcuno di come la scuola riesca ad adempiere il ruolo ora descritto? Non direi: oggi la scuola sembra interessare l’opinione pubblica, infatti, solo per le agitazioni di tipo sindacale degli insegnanti o per le cosiddette «lotte degli studenti». Di ciò che invece accade ogni giorno nelle sue aule, dell’atmosfera che in esse si respira, di ciò che costituisce la vita concreta degli istituti, dell’effetto delle regole adottate, dei rapporti degli insegnanti con le famiglie e con gli allievi, di tutto ciò, così come di quanto essa riesca davvero a insegnare, non sembra che importi quasi nulla a nessuno. Tanto meno, poi, sembra importare quale sia il reale effetto che la scuola stessa ha sulla costruzione sociale degli italiani. Anche il ministro Giannini ho il sospetto che di tutto questo si occupi e sappia pochissimo: in pratica - come è la regola supinamente accettata da tutti i ministri - temo che essa conosca solo ciò che la sua burocrazia vuole farle conoscere. 
Dubito ad esempio che nelle stanze di viale Trastevere sia mai giunta notizia che in moltissime realtà scolastiche italiane ormai si assiste ad una vera e propria abolizione di fatto della disciplina. Dubito che si sappia che ormai non sono affatto rari i casi, già nelle scuole medie, non solo di aperta irrisione e insofferenza da parte degli studenti verso gli insegnanti, ma addirittura di minacce e insulti nei loro confronti: e quasi sempre senza che ciò produca sanzioni degne di questo nome (il caso della sospensione inflitta l’altro ieri in una scuola del Torinese a una quindicina di allievi, è la classica eccezione che conferma la regola). Da tempo infatti nella scuola italiana - complici l’aria dei tempi, la voglia di non avere fastidi, l’arroganza di molti genitori inclini a proteggere sempre il «cocco di casa» anche se è un teppista in erba - da tempo, dicevo, domina un permissivismo distruttivo e frustrante. 
Un permissivismo che prende, tra le molte altre, la forma della promozione d’ufficio. Certo, non è scritta da nessuna parte (almeno suppongo), ma di fatto vige la regola che nella scuola dell’obbligo, cioè fino alla terza media, è vietato bocciare. L’effetto di tutto ciò è che in generale il meccanismo didattico risulta privo di quello che da che mondo e mondo è il solo, vero (e infatti altri finora non ne sono stati inventati), strumento di sanzione. Ma ancora più importante, però, è che dominata da un tale meccanismo perverso, la scuola finisce inesorabilmente per perdere ogni reale capacità di insegnare qualcosa. Mi chiedo se il ministro Giannini sia consapevole di ciò che un gran numero di insegnanti potrebbero confermarle: e cioè che oggi termina la scuola dell’obbligo un grandissimo (insisto: grandissimo) numero di studenti incapaci di scrivere correttamente in italiano, di fare il riassunto di un testo appena complesso, di risolvere un pur non difficile problema di matematica. Me lo chiedo; ma mi pare che in questo ambito, invece, la politica abbia rinunciato a chiederselo e - salvo occuparsi di assicurare posti di lavoro ai «precari» - abbia deciso da tempo di rinunciare ad ogni suo ruolo direttivo, a qualsiasi intervento effettivamente di merito, preferendo affidarsi a un vuoto didatticismo e ai ritrovati tecnici della telematica nonché alla famigerata «autonomia scolastica". 
In verità è tutto il Paese che sa poco o nulla di cosa sia realmente oggi la sua scuola, né vuole saperlo. Ignora, ad esempio, che grazie ad un assurdo statuto di autonomia amministrativa attribuita ai singoli istituti e alla regionalizzazione di quelli che una volta erano i Provveditorati agli studi, la scuola italiana è oggi per più versi abbandonata a se stessa. Ignora che le singole scuole sono obbligate ad andare a caccia di studenti asservendosi sempre di più alle leggi del mercato e alle mode socio-culturali: ricorrendo a offerte formative fatte per «piacere» alle famiglie, programmando attività educativamente anche le più inutili e spesso a pagamento, che in tal modo discriminano socialmente gli alunni. Ma anche qui: importa a qualcuno questo snaturamento di fondo? Importa a qualcuno, ad esempio, che per sostenere il numero delle iscrizioni le suddette scuole siano indotte spesso a chiudere un occhio sui risultati scolastici insufficienti dei propri allievi? Importa a qualcuno che una siffatta autonomia stia operando implacabilmente contro l’unità del Paese, accentuando le disparità tra quartiere e quartiere, tra regione e regione, tra il Nord e il Sud? Favorendo ulteriormente le situazioni già favorite, e sfavorendo quelle già svantaggiate? Da almeno due o tre decenni i giovani italiani crescono e si socializzano in questo ambiente scolastico. Qui apprendono che cos’è la cultura, cosa sono le regole, che cosa l’autorità, e che conto tenerne. In piccolo imparano insomma come funziona il loro Paese: ci si può meravigliare se poi, quando crescono, si comportano di conseguenza?  

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